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Martedì, 05 Gennaio 2010 15:04

"La mia esperienza con le avventure", di Ivan Venturi

Per scrivere il mio libro per ragazzi ‘Facciamo un videogioco!’ ho indubbiamente ripescato nelle mie esperienze personali di quasi trent’anni (gulp!) fa. Ricordo come fosse ieri la sensazione magica dei videogiochi adventure, inizialmente privi di grafica e zeppi di descrizioni testuali evocative (in inglese), che allo stesso modo riuscivano a creare dentro la nostra testa dei mondi immaginari sconfinati, in cui era possibile essere protagonisti in un modo davvero inconcepibile fino ad allora. La mia avventura negli adventure cominciò un pomeriggio della primavera del 1981.

Il mondo è piccolo, e Bologna lo è ancora di più. Lo zio di uno dei miei più cari amici si chiamava Valerio, e (questo l’ho imparato solo un paio d’anni fa) era stato compagno di banco delle elementari con un altro Valerio, tale Evangelisti, fin da bambino appassionato di storia e scrittore di storie, ora autore dei magnifici libri dai quali stiamo traendo il nostro adventure-game: Nicolas Eymerich l’inquisitore – la peste. Certe volte il destino è davvero ben sceneggiato.

Avevo undici anni quando giocai per la prima volta a un adventure-game. Ancora non sapevo si chiamassero così. Sapevo solamente che a casa dello zio di un mio amico delle medie (lo zio Valerio di cui sopra) c’era un Vic20 e che il fantastico zio ci avrebbe lasciato giocare con questo gioco strano, diverso da quelli delle sale giochi.

Si chiamava The Count (‘Il Conte’) e l’autore era Scott Adams. Il ‘conte’ in questione era il conte Dracula, naturalmente, e tutta l’avventura era ambientata in un castello. Un castello particolare, però, con un sentore domestico. C’era la cucina, col ‘garlic’ (aglio) necessario a tenere lontani un certo paio di denti aguzzi, il giardino con le tombe coperte di margherite eccetera. Ricordo le ambientazioni come se ci avessi camminato davvero. Nonostante dovessimo utilizzare il dizionario inglese in continuazione, io e i miei amici ci mettemmo pochissimo ad ‘entrare nel gioco’. Passammo un pomeriggio intero risolvendo forse pochi passi della soluzione ma vivendo decisamente un’avventura incredibile. ‘Morimmo’ una quantità innumerevole di volte, dato che nei vecchi adventure si poteva ‘morire’ e, anzi, questo succedeva piuttosto spesso.

Da quel pomeriggio qualcosa scattò. I computer, la tecnologia, infine e soprattutto i videogiochi esercitavano un fascino fortissimo su di me. Avevo un sacco di sogni a riguardo. Ma dopo aver giocato al ‘Conte’ (che non a caso viene giocato a fondo dai protagonisti del mio libro, anche se in versione fantomaticamente rinnovata) la mia immaginazione si concentrò e prese una forma ben determinata: quella degli adventure. Ogni sera, prima di addormentarmi, pensavo ai mondi che prima o poi avrei costruito. Immaginavo perlopiù le ambientazioni, comunque in qualche modo già intrise di logica, per esempio una caverna sotterranea gigantesca percorsa da ponti di corda sospesi nel vuoto. Non me la sono inventata adesso. E’ una ‘fotografia’ che conservo nella mia testa da trent’anni.

Un’estate ebbi la fortuna di poter adoperare (quando non lo usava mio fratello più grande che l’aveva ricevuto per programmarci un gestionale per un negozio) uno SHARP MZ-700. All’avvio si caricava il BASIC dal registratore integrato nel corpo-macchina. Dopodichè si poteva iniziare a lavorare, e se non ricordo male c’erano una ventina di kilobytes a disposizione. Già masticavo un po’ il basic, dato che non facevo altro che leggere i ‘listati’ che apparivano sulle riviste di computer. Quell’estate, avevo 12 anni, scrissi il mio primo adventure. Era semplicissimo: una ampia descrizione all’inizio di ogni ambiente, poi l’INPUT “Cosa fai adesso?” e di seguito una serie di condizioni sulla stringa inserita dal giocatore(IF a$=”nord” THEN GOTO 500, che era la linea di codice dove c’era la descrizione dell’ambiente a nord). Non c’era un ‘parser’ (cioè un’interprete delle frasi inserite dal giocatore), bensì solo il riconoscimento della stringa intera che inseriva l’utente. Le parole usate erano le direzioni, UCCIDI, PRENDI, METTI, LASCIA. Non c’era complemento oggetto, dato che tecnicamente non ero in grado di dividere la frase inserita in due e riconoscere l’AZIONE e l’OGGETTO. Non c’era inventario, non c’era uso di variabili. Praticamente un ‘ipermedia’!
Allo stesso modo, era alquanto efficace: io mi divertii moltissimo a programmarlo, cosa che verso la fine facevo in maniera davvero rapida e sempre più evoluta, e mio cugino e i miei amici si divertivano a giocarlo. Una cosa semplicissima, ma che già funzionava!

Poi terminai di scriverlo. L’avevo chiamato ‘Il segreto di Nhim’ e questo fu il nome che scrissi sulla musicassetta prima di chiuderla e riporla , con grande tristezza, in fondo a un cassetto. Non la usai mai più, dato che mio fratello terminò il lavoro e restituì lo SHARP MZ-700. Non ne ho mai più visto un altro, e ‘il segreto di Nhim’ diventò un segreto per sempre.
Dovetti aspettare un paio d’anni e una borsa di studio per riuscire a comprarmi un computer, ma alla fine ce la feci: un C64 nuovo fiammante, con 64K di memoria. Una capacità pazzesca, per allora. Mi misi subito all’opera, questa volta per realizzare un’adventure più seria, nella quale si sarebbero potuti usare tutta una serie di verbi per le azioni e una gran quantità di parole per gli oggetti. Sviluppai un ‘parser semplice ma funzionale, che digeriva la frase inserita dal giocatore e la risputava sotto forma di un paio di numeri. ‘L’anfora del dio Stellare’, questo era il nome, venne fuori molto bene (per quelli che erano i miei standard di allora, ovviamente) e il passatempo mio e dei miei amici era perlopiù giocare, ‘testare’, il lavoro nuovo fatto fino a quel momento.

Successivamente, anche grazie agli stimoli tratti da un libro (di cui purtroppo non ricordo il nome) che spiegava passo-passo come realizzare un adventure semi-grafico, scrissi ‘Fuga da Kreon 3’, dove una parte dello schermo era riservata alla ‘grafica’ (squilli di tromba!). Ora usavo in maniera massiccia le variabili, una logica avanzata e gli sprites animati per i robot che infestavano l’astronave Kreon 3.

Fu con queste due avventure e un altro gioco sviluppato in seguito (un arcade-manageriale assurdo che si chiamava Tortuga Race) che mi presentai da Francesco Carlà. Da quell’incontro prese poi forma la Simulmondo, tramite la quale poi realizzammo un bel po’ di adventure, anche se essi non furono mai il ‘core businness’ dell’azienda.

Ecco perché Roberto, undicenne protagonista di ‘Facciamo un videogioco!’, entra nel mondo dei videogiochi dalla porta degli adventure. Perché essi, come tutti i videogiochi, stimolano l’intelligenza e particolarmente l’immaginazione, però a differenza degli altri non sono tecnicamente troppo complessi, essendo basati sui contenuti grafici e testuali più che sulla programmazione. Insomma: fare un videogioco adventure è possibile, anche senza capacità tecniche smisurate e senza budget hollywoodiani. E’ più che possibile: è un’esperienza meravigliosa e estremamente formativa. Anche se l’adventure che si scrive è elementare, non confrontabile coi capolavori sul mercato, non ha importanza. Il mondo rappresentato sarà comunque unico, e il divertimento procurato ad amici e conoscenti sarà lo stesso, anzi, forse di più data la ‘autenticità’ del prodotto. Avete mai provato a giocare a un videogioco realizzato da ragazzini? Io sì. E’ bellissimo, perché nella povertà tecnica e di contenuti, si trovano comunque ben delineate idee fresche, spesso tratte da qualche film o libro o fumetto, ma poi stravolte e fatte proprie.

Non è facile FARE un videogioco, è più facile USARE.
Però FARE, o PENSARE DI FARE, è molto più divertente. E dopo aver ‘FATTO’, ci si ritrova cresciuti, maturati, più intelligenti, arricchiti da nuove idee e nuove strutture di pensiero.
Per questo al libro ‘Facciamo un videogioco!’ è allegato l’Inventastorie. E’ un semplice authoring system, ma dà la possibilità di costruire un adventure grafico, sia inserendo propri contenuti (disegni, foto o altro) sia utilizzando quelli già presenti sul cd-rom. Abbiamo inserito anche un adventure, ‘Il mistero della Rocca Oscura’, interamente realizzato con Inventastorie. E’ lo stesso programma che usano i protagonisti del libro. ‘Facciamo un videogioco!’ è un romanzo che attraverso la storia diventa una sorta di manuale, pratico, sulla realizzazione degli adventure.
Ho cercato, attraverso la storia, di spiegare la progettualità ma anche come usare il proprio entusiasmo per ricavare l’energia necessaria a compiere un lavoro più complesso del semplice ‘giocare’. Spero di esserci riuscito. Ai posteri, e ai lettori, l’ardua sentenza!

Facciamo un videogioco!’, edito da Gradozero Edizioni, 192 pagine, euro 24,90, con cd-rom.

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