Il secondo capitolo dell'avventura grafica piĂą afro-caraibica della storia.
Non è il caso stavolta di riesumare la solita, pur veritiera, prefazione: la favola del gruppo di sviluppatori provenienti dalla community dell’
AGS che tenta la ribalta commerciale è già stata trattata dal collega nella recensione del
primo capitolo. Mi limito a dire che tendo a vedere più di buon occhio l’operazione del quartetto svedese della
SkyGoblin, che ha dato una nuova veste al loro prototipo freeware
Over The Edge spremendo la sua nuova competenza, piuttosto che la recente ondata di
remake/
remaster/
reloaded da parte di veterani che vogliono capitalizzare, forse un po’ tardivamente, sul rinnovato interesse per il genere.
Per tempistiche, questo secondo capitolo non è esattamente da prendere a modello per repentinità : il predecessore ha ormai compiuto due anni ed il prototipo ne ha oltre quattro. Avevo provato tempo addietro quest’ultima versione e ho approfittato della recensione per riprendere la versione restaurata, notando che, pure con qualche buco nella mia memoria, il ricordo dei personaggi e delle ambientazioni era ancora vivido nella mia mente. E’ un buon segno non peregrino, a testimonianza dell’attenzione speciale al mood ed allo stile grafico di
The Journey Down.
Il
character design è una rivisitazione del
concept di
Grim Fandango (anche lui sotto i ferri del chirurgo estetico); laddove quest’ultimo si ispirava alle
calacas messicane,
Skygoblin attinge all’arte d’intaglio delle maschere tradizionali africane, che regala ad ogni personaggio la fisionomia unica del substrato tribale d’origine. Se però questo stile si sposava naturalmente con le atmosfere etniche di quell’intimo porticciolo per idrovolanti, il passaggio alle ambientazioni noir anni ’40 della seconda parte mi ha lasciato con una sorta di mal d’Africa.
Questa nuova scenografia, di suo solo marginalmente meno originale della precedente, è rischiosa e si presta ad un confronto scomodo diretto con la già citata opera maestra di Schafer, ma ribadisco che almeno visivamente si difende alla grande. Il vantaggio intrinseco è l’instaurazione di uno spaesamento alla
topo di campagna, topo di città tra le personalità “alla mano” degli abitanti di
St. Armando e la patinata raffinatezza di
Port Artue, che enfatizza l’ostilità di alcuni enti locali verso i vostri intenti.
Togliamoci di mezzo la direzione artistica una volta per tutte. Perfetto innanzitutto il
mash-up tra gli sfondi disegnati a mano e i modelli 3D, anche grazie alla scelta argutissima di ricalcare leggermente i contorni di questi ultimi per adattarli al tratteggio marcato di background, che nasconde il
cel-shading avvicinandolo a volte alla plasticitĂ di
the Neverhood. La fusione ottenuta è praticamente completa e supera anche i Pendulo, particolarmente ferrati in questo campo; la parte 2D beneficia difatti sia di una colorazione che non esibisce con tracotanza la manovalanza, sia di qualche abbellimento di luce dinamica, ad esempio negli splendidi scorci notturni piovosi e nei riflessi sulle bellissime auto d’epoca.
La vena noir è insaporita da un accompagnamento jazz di superba fattura, palcoscenico ideale per le doti sassofonistiche di
Simon D’souza: il talentuoso
freelance, a cui è stato dedicato l’episodio, è purtroppo venuto a mancare proprio pochi mesi prima della pubblicazione del suo lavoro.
In linea di massima, il secondo capitolo mostra migliorie in tutti i campi: è leggermente più lungo, l’
engine (
Gobby) è fatto in casa ed ha una solidità invidiabile, se non per qualche trascurabile rallentamento appena prima di un’animazione.
Il livello di difficoltà trasla finalmente dal quasi banale al dignitoso, tanto che definirei il gameplay rassicurante, forse troppo; la linearità di fondo è infatti localmente dilatata in una serie di mini-sezioni punta-e-clicca spezzate da narrazione non interattiva, mentre le zone non ricorrenti sono forse troppo sbrigative, pur fornendo un’utile valvola di sfogo per non far fossilizzare il giocatore sulla più estesa sezione cittadina. Quest’ultima è però più evoluta dal lato ludico e permette di imboccare un percorso nel diagramma di flusso degli enigmi che può essere completato solo in seguito.
I
consigli di gilbertiana memoria non avvallerebbero l’approccio ad un enigma prima che si stabilisca l’obiettivo, ma
The Journey Down riesce comunque a gestire la situazione in maniera ottimale, grazie all'efficiente struttura che si è imposto. Peraltro alla logica e alla contestualizzazione di questo mix inventario/rompicapo non si possono fortunatamente fare appunti: la strategia classica di offuscamento dei primi e di operazione di meccanismi di stampo
syberiano dei secondi è gradevole, ma manca quel guizzo sbalorditivo d’inventiva, che ho riscontrato in produzioni anche molto più modeste (tipo
the Samaritan Paradox).
Questo strano dualismo che ho avvertito, che forse ho mancato di articolare piĂą distintamente
altrove, potrebbe farmi tacciare di pignoleria:
The Journey Down convince in tutti i parametri oggettivi, nella presentazione, puro onanismo per gli occhi, nella maestosa rappresentazione dei veicoli volanti e naviganti in movimento, nella programmazione e nella dolce curva di difficoltĂ enigmistica.
Per evidenziare dove non soddisfa appieno bisogna invece scavare più a fondo e qualche debolezza potrebbe essere dovuta alla natura episodica, sebbene il capitolo centrale sia in genere quello che dà più spazio per sparare le migliori cartucce e quindi sia il più adatto per farsi un’idea globale se preso a sé stante.
Nonostante si faccia ampio uso di
slang da
blaxploitation, storicamente associato a storie dalle tinte forti, Bwana e compagni li declinano con spensieratezza e infondendo una naturale simpatia nel giocatore. Il tono non è esattamente umoristico, ma bonario, non precludendo l’esplorazione di altri temi portanti dell’opera, come la separazione da un genitore, il controllo tentacolare del mercato di una multinazionale o le velleità esplorative di territori sconosciuti, che tra l’altro sembra non rimarranno potenziale sprecato come l’Elysium in
Deponia.
Gli argomenti sono validi, ma non valorizzati appieno dalla scelta delle scene, che circumnavigano quelle emozioni invece di viverle appieno. Dove sarebbe stato utile ad esempio affrontare faccia a faccia il set di antagonisti, a cui non viene lasciato spazio per una crescita caratteriale che possa elevare il
plot twist, viene invece incontrato tutto un cast di comparse occasionali non approfondite, tra l’altro quasi certamente non riciclabili nell’episodio finale.
E’ un retaggio del design tradizionale, conservativo ma troppo meno esplorativo di quanto sia necessario per vivere appieno la storia. Non dovrei trovarmi, ad esempio, un bravo ragazzo come Bwana a fare il vandalo o a rubare oggetti per strada; magari è giustificabile, non con troppa maturità , come lotta di classe e rivalsa contro la popolazione benestante, ma qui puzza piuttosto di cliché radicati nel DNA dell’avventuriero, che raccoglie istintivamente qualsiasi cosa gli capiti a tiro.
Lina aggiunge quel pizzico di intraprendenza alla
Erin Brockovich che non guasterebbe al protagonista stesso; lo stereotipo ribaltato simile a quello finale di Elaine nel primo
Monkey Island è un buon segnale in un periodo di
maretta sulla rappresentazione della donna nei videogiochi, sebbene arguirei che per una vera uguaglianza Bwana non dovrebbe automaticamente assumere che la pulzella di turno debba essere salvata, specie quando la sceneggiatura ricade in trappole di banalitĂ narrativa transitoria ben piĂą scontate, quale quella delle
prigioni di cartapesta (vista di recente anche in un
altro titolo molto piĂą ambizioso narrativamente).
Il tratto dialettale del primo capitolo sembra qui un po’ edulcorato e ciò dovrebbe facilitarne la comprensione anche a chi ha una dimestichezza buona, ma non ottima con l’inglese; in un enigma, tra l’altro forse quello più riuscito, una registrazione manca di sottotitoli che potrebbero aiutare la risoluzione, ma l’avventuriero esperto non avrà sicuramente problemi a far quadrare comunque i conti. I tre soli slot di salvataggio potrebbero infastidire coloro che apprezzano un secondo sguardo alle precedenti sessioni di gameplay; mi sembra manchi anche il rivelatore di
hotspot, ma si compensa ampiamente con un’area di
hitbox molto estesa.
Il secondo capitolo rimane comunque spettacolare ed un’impressionante evoluzione rispetto al primo; obbligo farci un giro per gli avventurieri che apprezzano lo stile coinvolgente e senza sbavature, passato senza colpo ferire dal caraibico al noir. Se però non cambierà qualcosa nel prossimo capitolo, avrà difficoltà ad essere ricordato nel panorama attuale: intrappolato in una professionalità troppo conservativa e rassicurante, gli manca il coraggio per lasciare il segno anche nei contenuti.